REGGIO EMILIA – Un “modulo organizzativo orizzontale”, con caratteristiche ben definite: “La costante interlocuzione dei vertici, la circolarità delle informazioni, il raccordo e la sinergia operativa nell’attuazione del comune progetto criminale”. Un uso “largo e diretto” della capacità intimidatoria, che si è tradotto in 124 episodi di danneggiamento e incendio tra il 2010 e il 2012 nelle province di Reggio, Parma, Modena e Piacenza. Episodi “tutti caratterizzati dalla omertà delle vittime, che non hanno denunciato i fatti e hanno negato di avere subìto pressioni o richieste estorsive”.
Questo era la cosca di ‘ndrangheta che è andata a giudizio nel processo Aemilia secondo i giudici della seconda sezione penale della Corte di Cassazione. Ai vertici c’erano Nicolino Sarcone e Alfonso Diletto, promossi perché avevano aiutato il boss Nicolino Grande Aracri nella sua scalata al potere: Sarcone partecipando agli omicidi di Nicola Vasapollo e Antonio Villirillo, Diletto in quanto finanziatore “dell’omicidio di Antonio Dragone” nel 2004 a Cutro.
L’obiettivo numero uno, secondo la Suprema Corte, era il controllo di settori economici come l’edilizia e l’autotrasporto. Il reinvestimento di ingenti risorse finanziarie accumulate con le false fatturazioni ha prodotto “un radicale inquinamento di interi settori dell’economia locale, con espulsione dal mercato” degli operatori onesti. “Gli operai erano tutti in nero, non sapevamo nemmeno come si chiamavano”, ha raccontato il collaboratore di giustizia Antonio Valerio, citato nelle motivazioni della sentenza.
Al boss Grande Aracri andava bene così: “L’interesse del capo per la compagine emiliana – scrivono i giudici – si concentrava essenzialmente sulla possibilità di reinvestimento dei proventi delittuosi della cosca di Cutro in lucrative attività commerciali”. Per il resto, la cosca emiliana “ha operato in piena indipendenza”. Cruciale, secondo la Suprema Corte, il ruolo di Giuseppe Iaquinta, Pasquale Brescia, Alfonso Paolini e Antonio Muto classe 1955 nella ricerca di contatti con esponenti della politica come Giuseppe Pagliani. Ma i giudici stigmatizzano anche “l’utilitaristica connivenza mostrata da taluni settori dell’imprenditoria autoctona”.
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