REGGIO EMILIA – Una ragazza del secolo scorso che a 18 anni parte da un paese della Campania in cerca di lavoro e di futuro e arriva a Reggio Emilia: potremmo partire così, Piera. Come fu quell’impatto nel pieno degli anni 70, gli anni delle lotte e dei cambiamenti?
“Fu un passaggio dirompente. Vivere la realtà di un paese con 5000 anime e 50.000 bufale, privo di scuole superiori, di biblioteca, di fabbriche, significava scontare la mancanza, quasi assoluta, di luoghi di aggregazione, di associazionismo, quindi la mancanza di partecipazione, di protagonismo popolare. Il potere era nelle mani di proprietari terrieri, del prete, dell’ insoddisfacente ceto politico, un ceto politico democristiano, monarchico, fascista. E’ evidente che l’arrivo a Reggio Emilia fu la svolta esistenziale. A Reggio nel ‘68/69, a differenza di quanto accadeva nelle grandi città, sedi di molte facoltà universitarie, il movimento iniziò dalle fabbriche, dai metalmeccanici prima, dai tessili, dai chimici e, a seguire, da tutti gli altri settori. La piattaforma rivendicativa, alla base del rinnovo contrattuale, diede inizio al famoso ‘Autunno caldo’. Le richieste avevano una carica innovativa fortissima. Fu una reale messa in discussione del modello patriarcale/paternalistico allora dominante. Non a caso tra le richieste maggiormente qualificanti vi era quella del riconoscimento dei consigli di fabbrica dove si prospettava una reale possibilità di contrattare le condizioni e i ritmi di lavoro, la salute, il diritto allo studio. L’ autunno divenne caldo perché le resistenze padronali furono forti e occorsero molte ore di sciopero e manifestazioni di massa”.

Piera Vitale con Nilde Iotti nel corso di incontro contro i licenziamenti nel tessile
Voglio rimanere dentro alla straordinaria esperienza che tante donne hanno fatto negli anni 70 del 900, a partire da quella delle 150 ore. Fu nel 1973 che, con il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, venne riconosciuto ad operai ed operaie il diritto di usufruire di permessi retribuiti per frequentare corsi di formazione della durata appunto di 150 ore, da spalmare su tre anni. Fu una straordinaria innovazione. Infatti lo Statuto dei lavoratori all’art. 10 prevedeva il diritto alla studio mediante turni di lavoro agevolati e l’esonero del lavoro straordinario, ma non un monte ore retribuito. Pensi che per le donne quella opportunità abbia rappresentato una sfida più significativa?
“Il diritto alla studio, che tu citi con molta chiarezza di merito, fu una vera svolta. Molti lavoratori e lavoratrici riuscirono a conseguire la licenza media e in molti casi la maturità. Io stessa, all’età di 36 anni, feci la bella esperienza della scuola “lavoratori studenti” e conseguii la licenza media. Per le donne, fu una grandissima esperienza di crescita personale e collettiva, infatti, oltre alla scolarizzazione di cui ho parlato prima, vi furono corsi specifici, di sole donne. Si erano anche costituiti a metà degli anni ’70 i coordinamenti intercategoriali delle delegate e delle sindacaliste. Fu una vera rivoluzione nel sindacato che, partita sulle questioni generali, ci fece assistere alla nascita, nel suo grande corpo, di un organismo guidato dalle donne, per le donne. Fu così che una ventata di femminismo cambiò, in gran parte, la mentalità della mia generazione, fino a quel momento tutta improntata sul percorso dell’emancipazione che, con lotte delle lavoratrici e impegno delle organizzazioni femminili nei partiti, nell’U.D.I. (Unione Donne Italiane), aveva già iniziato il percorso verso la stagione dei diritti e delle leggi sulla tutela della maternità e della condizione femminile. Entrò lo specifico del femminile nel sindacato, dunque, si utilizzarono le 150 ore per frequentare corsi sulla salute, sulla sessualità. Nella zona delle ceramiche si ebbero incontri con le equipes dei consultori dai quali emersero disturbi legati al tipo di produzione, originati dal piombo per produrre piastrelle, dai ritmi e dagli orari di lavoro. Si posero, in questo modo, le condizioni per inserire nella contrattazione obiettivi legati alla condizione delle donne e al necessario miglioramento. La partecipazione aperta ai gruppi di sole donne, consentì una crescita individuale e collettiva dalla quale scaturì l’esigenza di maggiore libertà a partire dalla famiglia. Un sommovimento così forte non poteva restare nei confini della fabbrica, dovevano mutare le condizioni fuori, nella società, quindi pensavamo che le Istituzioni, il Parlamento dovevano sentirsi parte fondamentale del cambiamento. Ci fu allora l’impegno delle Amministrazioni Comunali nella realizzazione dei servizi, le analisi su come tentare l’ armonizzazione tra orari dei luoghi di lavoro e aperture dei servizi. Non aggiungo altro sul ruolo dei partiti di allora e del Parlamento, perché quello fu il decennio dei diritti, delle conquiste ed è un fatto noto. Quello che non bisogna mai dimenticare è che per i diritti conseguiti allora bisogna sempre vigilare, infatti non è mai così scontata la loro reale applicazione”.
In quegli anni tante ragazze hanno chiesto e preteso ciò che sembrava impossibile, spesso in profondo contrasto con le loro madri. Anche in una città di provincia come la Reggio di allora nasce il movimento femminista che prende tre strade, quella dei collettivi, dell’autocoscienza della scoperta di sé, del proprio corpo e della sorellanza, quella dell’impegno all’interno dei consultori e ultima, non per importanza, quella dell’esperienza dell’intercategoriale delle delegate sindacali. Quali sono i tuoi ricordi?
“Fai bene a sollevare la questione del rapporto tra le varie generazioni di donne, infatti non sono stati rari i contrasti che abbiamo vissuto come figlie nel rapporto con le madri, sia quelle biologiche che, per così dire, quelle politiche. Parto dall’esperienza vissuta con le operaie anziane del calzificio dove lavoravo, ma il tema era lo stesso anche nelle altre realtà lavorative. Parlo di donne con anni di lotte sulle spalle, molte di loro avevano vissuto il dramma della guerra, alcune avevano partecipato alla Resistenza; per loro “ la gradualità” nel giungere alla libertà personale, la mediazione negli obiettivi, era un dato acquisito. Portare alla discussione il tema della sessualità, del conflitto uomo-donna, era fuori dal loro orizzonte, per questo motivo l’incontro con i gruppi femministi non è stato facile: direi si è trattato di due percorsi che non si sono mai convintamente incrociati. Qui faccio una severa critica all’atteggiamento che tenemmo come lavoratrici verso le femministe che occuparono la Sala Verdi, una occupazione tesa a segnalare la mancanza di un luogo d’incontro per le donne a Reggio. Furono denunciate e noi non manifestammo solidarietà, né sostegno alla giusta richiesta. Sull’importanza dell’intercategoriale, penso di avere anticipato il mio pensiero nella precedente risposta, aggiungo solo un particolare non privo di importanza: nella situazione precedente all’esperienza dello specifico femminile nel sindacato, pur in presenza di una stragrande maggioranza di donne in assemblea, partivamo con i nostri interventi nelle assemblee in questo modo: ‘Perchè noi lavoratori…'”.
Una mostra sulle memorie di lavoro di operaie tessili reggiane. VIDEO
“Amatissime donne operaie e guerriere” è stata una bella mostra realizzata allo Spazio Gerra nel 2020 per raccontare la storia di tante ragazze, a capo chino sulle macchine da cucire, tutte operaie tessili, ma a testa e voce alta nel chiedere condizioni di lavoro salubri e l’abbandono del cottimo. La tua prima esperienza di lavoro è proprio lì, nella fabbrica tessile Bloch che tu ricordi, in un video realizzato proprio in occasione di Amatissime, come un vecchio edificio simile a un lungo e largo corridoio che ricordava un carcere. Ti chiedo di raccontare la storia della vostra occupazione della fabbrica, che dovrebbe entrare nell’epica della libertà e autodeterminazione femminile delle donne di questa città.
“La mostra Amatissime del 2020 è stata una bella e importante iniziativa proposta dalla Cgil, che il Comune di Reggio Emilia ha accettato. Il contributo organizzativo, e non solo, dell’equipe di Spazio Gerra è stato veramente straordinario. Definii l’evento, un vero risarcimento per le operaie del settore tessile. Purtroppo per vari motivi solo tre fabbriche son potute entrare nelle mostra: Bloch, Max Mara, Confit. La realtà del settore era molto più grande, parliamo di migliaia di lavoratrici, all’epoca, oggi ridotte a poche centinaia. Ho parlato di ‘risarcimento’ perché delle straordinarie lotte e del protagonismo delle lavoratrici reggiane non vi erano state tracce nelle iniziative di qualche anno fa in occasione del centenario della nascita della Cgil.
Amatissime ha avuto un bell’effetto di recupero e stavolta, bisogna proprio dirlo, è stato un uomo, il sindacalista Valerio Bondi, a pensarla, a proporla. Raccontare l’occupazione della fabbrica, in buona parte, testimoniata dalla mostra ,è questione abbastanza lunga e forse avrà bisogno di ulteriori occasioni per rendere testimonianza più accurata.
Parlerò di alcune delle emozioni che quelle vecchie mura hanno vissuto insieme a noi. Fu un colpo durissimo precipitare nella crisi della metà degli anni ‘70. Crisi che vide l’inizio delle famose ristrutturazioni delle grandi fabbriche italiane. Anche il gruppo Bloch (eravamo 3 stabilimenti nel Nord), più di 3000 tra operaie/i, impiegate/i, non sfuggì a tale stravolgimento, pur avendo richiesta del prodotto che era di alta qualità. La difficoltà era di natura finanziaria e quindi a maggior ragione la nostra ribellione all’idea della chiusura risultava giustificata. Nella nostra fabbrica si erano avvicendate parecchie generazioni di donne. Quel luogo di fatica era anche la testimonianza di affrancamento dall’eterno ruolo: casalinga- madre di famiglia.
Agli albori del ‘900, un uomo intraprendente, l’ingegner Menada, diede vita al calzificio: il calzificio reggiano. Vi entrarono bambine di 13/14 anni. Successivamente, nel 1948, fu acquistato da Giuseppe Bloch e contava oltre 600 occupati, si trattava in maggioranza di occupazione femminile; ecco perché non potevamo accettare la fine di tale patrimonio di crescita sociale, politica, delle donne. Eravamo nel ‘74 quando iniziò la richiesta dei licenziamenti per mancanza di liquidità, non di produzione; per questo ci opponemmo, come sindacato e come maestranze, per evitare la chiusura.
Chiedemmo l’intervento del Ministero dell’Industria, dei parlamentari reggiani e tutta la città rispose con una solidarietà incredibile. L’occupazione fu decisa nel 1976 e durò per circa due anni. Facevamo turni per presidiare la fabbrica, per evitare lo spostamento dei macchinari e del semilavorato in altri luoghi. Durante il presidio, preparavamo cartelli, organizzavamo manifestazioni per le vie della città e a Roma. Ogni giorno accoglievamo, come consiglio di fabbrica, delegazioni di lavoratori e lavoratrici di altre fabbriche, arrivavano commercianti che portavano viveri, infatti si cucinava, si facevano le notti.

Piera Vitale con Rossana Rossanda e due dipendenti della Bloch
Anche il Natale e tutte le festività le abbiamo trascorse in fabbrica, tanto che per Natale, in mensa, fu celebrata la messa. Un contributo importante lo diedero anche gli artisti: Dario Fo recitò un pezzo di Mistero buffo, si attivarono Lucio Dalla e gli Intillimani. Vennero a incontrarci rappresentanti dei partiti e delle Istituzioni a livello nazionale: Luigi Longo e Nilde Iotti del Partito Comunista, Pietro Ingrao allora Presidente della Camera. Portarono il loro contributo non formale le organizzazioni femminili, le donne dei partiti e dei movimenti, le compagne dell’UDI, le ragazze del movimento studentesco, il collettivo per il salario alle casalinghe… qui devo dire che non capimmo il progetto che avevano in mente, anzi ci sembrò molto strano che avessero chiesto di incontrarci, loro che ponevano al centro il salario alle casalinghe, mentre noi ci stavamo battendo per rimanere in fabbrica. Sì non ci eravamo capite! Ricordo l’esortazione che ci fece la responsabile dell’ UDI di allora, Lena Costoli, ci disse che se non avessimo accettato, anche nelle forme di lotta, il rischio molto alto della perdita di lavoro femminile, se fossimo rimaste nella difesa dell’occupazione classica, senza differenza alcuna, avremmo perso.
Nel frattempo, anche dopo 50 e oltre viaggi a Roma per incontrare l’allora ministro Donat Cattin, non ci fu nessun aiuto concreto. Anzi, incurante della perdita del posto di lavoro per migliaia di donne, diede finanziamenti ad una fabbrica di auto, l’Innocenti, sostenendo l’acquisto della fabbrica da parte dell’imprenditore argentino De Tomaso. Diverso fu l’atteggiamento della ministra Tina Anselmi, la Ministra del Lavoro, lei fu cordiale e solidale, sottolineando la giustezza della nostra lotta… ma non potè di più, non aveva il potere e i mezzi di Donat Cattin.
Poi la solidarietà che non era sempre costante, la lunghezza della lotta, la scarsa contribuzione dovuta alla cassa integrazione, la sfiducia nella prospettiva, fecero si che cominciò l’esodo verso altri settori; i lavoratori maggiormente qualificati, quasi sempre uomini, lasciarono e insieme a loro calavano anche le speranze. Un altro fatto mi rimase impresso: il rapporto tra donne in famiglia. Alcune operaie trovavano difficoltà a garantire il turno di presenza al presidio perché le suocere che in genere accudivano i nipotini mentre loro si recavano al lavoro, non erano disposte a fare altrettanto per consentire la partecipazione alla lotta. Alla fine giunse il fallimento e successivamente la costituzione di tre piccoli insediamenti produttivi da parte di medi imprenditori reggiani, che non ebbero lunga durata.
Possiamo dire che l’esperienza è stata dura, ma ha mostrato la resistenza della classe lavoratrice, delle donne. Positivo anche il fatto che grazie alla disponibilità e all’impegno dei consigli di fabbrica degli altri settori, tutte e tutti abbiamo trovato nuova occupazione. L’ingresso nel settore metalmeccanico fu nuovo ed interessante: quasi cento donne entrarono alla Lombardini e portarono l’esperienza della forte sindacalizzazione ed emancipazione che contribuì alla modifica di parte dell’organizzazione del lavoro in modo innovativo”.
Pensi che la condizione nella quale ci ha condotto la pandemia possa essere un passaggio critico per consentirci ancora una volta di volere l’impossibile, a partire da una cultura che definitivamente archivi il patriarcato, che adotti l’etica della cura non solo nelle relazioni tra persone ma anche con il mondo?
“Una questione enorme poni, a proposito della pandemia! Mi piacerebbe poterti rispondere in modo affermativo sognando l’impossibile, ma vedo parecchie ombre. Un ulteriore colpo al patriarcato? Sì lo vedo possibile, perché lo sconvolgimento degli assetti organizzativi ai vari livelli è un fatto reale, perché abbiamo visto emergere maggiormente il talento delle donne in questa terribile esperienza, sia a livello scientifico, basta pensare a quante virologhe, ricercatrici, abbiamo imparato a conoscere attraverso la televisione, la stampa, sia nella ”tenuta” della cura in tutti i suoi aspetti. Vedo ombre però nella crisi economica che peserà come un macigno sul Paese e che in genere penalizza maggiormente le donne e le aree più deboli. Anche il tema della Democrazia e della partecipazione mi preoccupano; le situazioni emergenziali portano ad un restringimento della cerchia di chi prende decisioni e il dopo non è facile da immaginare.
Infine, le ragazze del secolo scorso hanno cambiato la storia. Quanto le ragazze del XXI secolo se ne rendono conto?
“Le ragazze dici! Per quelle degli anni 70 del 900, per quelle come noi che non hanno conosciuto la guerra, il cammino è stato meno complicato che negli ultimi 20/30 anni. Le nostre madri hanno segnato il tracciato, noi abbiamo ricevuto il testimone e abbiamo proseguito, ma, tutto sommato, il mondo era più simile a quello che avevano vissuto loro. Dall’89, con la caduta del Muro, il mondo non è stato più lo stesso e le nuove generazioni si son trovate in una situazione completamente mutata: dalla situazione geopolitica, allo sconvolgimento climatico, alla rivoluzione tecnologica, alla globalizzazione senza governo. Così la politica e i partiti sono stati sconvolti da tanto sommovimento fino a perdere identità e senso dell’agire e infine è arrivata la pandemia. Vedo in alcune giovani donne che seguo sui social (purtroppo non vi sono altri luoghi d’incontro) belle soggettività. Sono brave, competenti, desiderano sfondare il tetto di cristallo. Cosa, invece, non vedo in loro? La voglia di mettere in comune capacità e desiderio, ‘fare squadra’ come dicevamo qualche anno fa. Vedo in definitiva, dei bellissimi dipinti, manca secondo me, la cornice. Mi piacerà invitare qualcuna di loro alla mostra sul femminismo allestita nei locali degli anarchici, naturalmente, appena si potrà. Concludo con un desiderio. In quasi tutte le città emiliane, vi è uno spazio d’incontro per le donne, recentemente a Parma hanno aperto “ la casa delle donne”… per noi, a Reggio, a quando?”.
Natalia Maramotti
Chi è Piera Vitale
Nasce a Cancello ed Arnone un piccolo paese in Provincia di Caserta. Approda a Reggio Emilia, a 18 anni per raggiungere la sorella. Cerca e trova lavoro al Calzificio Bloch. Si impegna da subito nel sindacato e come iscritta CGIL acquisisce un ruolo di rappresentante sindacale nel Consiglio di Fabbrica in qualità di delegata di reparto. Dopo l’occupazione e il fallimento della Bloch viene assunta alla Coop Consumatori Nord Est e svolge la propria attività come addetta al banco di libero servizio, con una lunga permanenza nel negozio della Coop di Corso Garibaldi. La sua lunga storia sindacale l’ha vista fare parte di vari organismi direttivi del settore tessile abbigliamento e partecipare al c.d. “intercategoriale” Sindacale. E’ stata anche componente della Commissione Femminile del PCI. Oggi come iscritta allo SPI CGIL fa parte del direttivo della lega del Centro storico. E’ da sempre attiva sul fronte dei diritti delle donne.
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