REGGIO EMILIA – Una settimana dopo la famiglia Sarcone, tocca ad Antonio Muto, 67 anni, originario di Cutro ma residente a Reggio e ora in carcere a Bologna. Cinquanta immobili, tra i quali una villetta di pregio in città, capannoni industriali, terreni, una società immobiliare, 12 rapporti bancari e un automezzo: tutti beni già posti sotto sequestro nel 2019 e che ora, in seguito alla richiesta firmata dal Procuratore generale Lucia Musti, passano definitivamente nelle mani dello Stato.
Un patrimonio disseminato tra le province di Reggio, Parma, Modena e Piacenza, con un valore complessivo di 8,5 milioni di euro.
Arrestato nel gennaio 2015 nell’ambito dell’operazione Aemilia della Dda di Bologna, Antonio Muto è stato condannato in via definitiva a 10 anni e 8 mesi per associazione mafiosa nel maggio dell’anno scorso. Attualmente si trova in carcere.
Nel processo Aemilia Antonio Muto si è sempre proclamato innocente e, nell’arringa difensiva finale, il suo avvocato lo paragonò a Enzo Tortora. Gli accertamenti della Direzione Investigativa Antimafia hanno tuttavia dimostrato la sproporzione tra il valore del patrimonio riconducibile a Muto e i redditi dichiarati.
Le sentenze passate in giudicato lo descrivono come figura consapevole e attiva della cosca Grande Aracri, un imprenditore che, attraverso le attività del clan, cercava di procurarsi affari e di accrescere il proprio peso.
Era legato in particolare a quegli ‘ndranghetisti che avevano intessuto rapporti in Questura e nel Pdl, come Pasquale Brescia e Alfonso Paolini, e che cercavano sponde nella politica locale per contrastare l’azione del prefetto Antonella De Miro. Il 2 marzo 2012, insieme a Brescia, Paolini e Gianluigi Sarcone, partecipò all’incontro fra Giuseppe Pagliani e Nicolino Sarcone negli uffici dell’azienda di quest’ultimo.
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