
Fulvia Signani tra Marianne J. Legato e Marek Glezerman
REGGIO EMILIA – Si dice Fulvia Signani e si va immediatamente col pensiero al tuo impegno per l’affermarsi della medicina di genere. La medicina ha sempre avuto una impostazione antropocentrica e la cosa non ci stupisce, considerato che il mondo fino a pochi decenni fa trattava il maschile quale neutro universale. Quand’è che hai aderito all’idea che anche la medicina poteva essere discriminatoria?
“Durante i primi anni di Psicologia mi aveva colpito il libro di Ivan Illich “Nemesi medica”. Disincanto e critica nei confronti della “scienza”. Appena laureata ho iniziato a lavorare nei Consultori familiari, oltre a specializzarmi in terapie sessuali, all’epoca sapere rivoluzionario. Erano i primi anni ‘80, toccavi con mano la necessità di rivendicare diritti paritetici della salute tra uomo e donna. Già da quegli anni parteggiavo sì per le donne, ma dedicavo anche un’attenzione specifica ai cosiddetti “uomini Beta” fuori dai canoni maschilisti, quindi marginalizzati dal sistema patriarcale. Collaborai all’apertura del consultorio dei giovani di Ferrara e in ambulatorio psicologico avevo più pazienti maschi che pazienti femmine. Quegli anni mi aiutarono a scoprire un modo di fragilità che la visione maschilista non lascia intuire. Il lavoro in consultorio fu molto condizionato dalla lettura del libro delle femministe americane “Noi e il nostro corpo” l’essere consapevoli e scoprire il proprio corpo di donna diventò per me naturale. Avevo la fortuna di un’educazione famigliare senza tabù. Mi dedicai per oltre vent’anni alla educazione socio-affettiva e sessuale (quella che oggi chiamano “del rispetto”) nelle scuole di tutta la provincia ferrarese. In anni più recenti ho appreso che solo nel 1998 si è scoperta, o meglio, si è voluta accettare la scoperta della parte interna della clitoride. Una discriminazione che ancora mi sconvolge: non riconoscere l’anatomia completa del corpo della donna per più di 500 anni, se contiamo come riferimento le tavole anatomiche del Vasalio e del Falloppio tra il 1500 e il 1600. Se non è sessismo questo”.
Nel tuo “La salute su misura” scritto nel febbraio 2013, si legge:” medicina di genere non è medicina delle donne”. Spiegaci questo punto di vista, mai troppo chiaro ai decisori politici, estendibile a tutte le azioni antidiscriminatorie che un Paese mette in campo per conseguire l’eguaglianza sostanziale tra donne e uomini.
“Nel 2009 ho partecipato al primo convegno nazionale di medicina di genere e sono entrata nel primo progetto europeo sul gender medicine curriculum, che ha significato, per me psicologa, apprendere i fondamentali per la conoscenza effettiva di questo approccio che oggi viene definito sex and gender based. Da allora – i primi anni ho vissuto lo scherno e la derisione – sono dedita (non sono la sola) al progresso concreto di questo approccio. Mi sono sentita dire più volte ma perché solo il genere? ci sono altri determinanti di salute, c’è l’età, l’etnia, etc. Vero. Ed è vero anche che considerare l’interrelazione di questi fattori è un provvedimento definito già dalle femministe degli anni 60 intersezionalità. Ma il genere è riconosciuto da tempo tra i fattori determinanti la salute, quindi condizionanti, come un fattore indipendente. Ha un’incisività costante in tutti i paesi del mondo. In tutti i paesi del mondo le donne sono svantaggiate nella salute, meno trattate in fase acuta delle malattie, meno capite nelle sintomatologie, meno studiate e questo richiede davvero un provvedimento di giustizia.
Ti ho inviato una foto per me molto significativa: era il 2015, Congresso Internazionale di Medicina di Genere di Berlino, ho l’occasione di conoscere di persona Marianne Legato cardiologa americana, pioniera della medicina di genere, Professionista ormai di grande intelligenza che riesce ad andare oltre la propria disciplina per interpretare in modo completo il nuovo approccio. Non tutti infatti sono consapevoli che il sex and gender based approach ha una doppia valenza: richiede scelte politiche di equità e siamo nel campo, se vogliamo, del politico-sociale; necessita però anche della conoscenza e applicazione concreta dell’appropriatezza clinica, quindi siamo nel campo della ricerca scientifica e sanità. L’uguaglianza sostanziale tra donne e uomini si concretizza effettivamente nella comprensione da parte dei decisori che favorire e diffondere i risultati delle nuove scoperte scientifiche può permettere il raggiungimento di un’uguaglianza sostanziale tra donne e uomini.
Ho occasione di ripensare spesso al proverbio cinese “nessuno è maestro del nuovo”, in particolare quando trovo persone che affermano di “fare medicina di genere” da sempre. Mi spiace venga sminuita la portata di questa che Marek Glezerman (alla mia sinistra nella foto) allora Presidente dell’Associazione Internazionale di medicina di Genere, definisce “rivoluzione silenziosa, ma inesorabile”.
C’è stato un tempo, fino a non molti anni fa , in cui parlare di medicina di genere, così come di linguaggio sessuato, determinava una stigmatizzazione sfavorevole delle professioniste e delle donne della politica che, da antesignane, ne facevano un tema fondamentale per l’eguaglianza sostanziale. Come sempre, è stato grazie alle donne, comunque impegnate sul fronte della parità di genere, che si è giunti alla adozione del Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere, approvato con decreto della Ministra Grillo il 13/6/19. Dicci, come professionista coinvolta anche a livello nazionale, cosa è successo dopo?
“Tornerei indietro di qualche anno. Nel 2016 Paola Boldrini nominata da poco Deputata (ora Senatrice), mi propose di collaborare alla stesura della proposta di legge sulla medicina di genere che ebbe, per un inusuale iter velocissimo, una concretizzazione due anni dopo, nell’art. 3 della Legge 3/2018. Il “Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere” (Comma1 dell’art.3) è solo uno dei tre dispositivi necessari all’applicazione completa della legge. Sto collaborando, in quanto membro fondatore del Centro Universitario di Studi sulla Medicina di Genere dell’Università di Ferrara, alla redazione dell’altro Decreto attuativo, che verrà alla luce a breve, il “Piano per la formazione della medicina di genere” (Comma 4 dell’art.3) che avrebbe dovuto, per logica, precedere quello che citavi. Abbiamo appena detto che non ha senso infatti, fare senza sapere. L’8 aprile 2021 è stato insediato l’ultimo dispositivo previsto, l’Osservatorio Nazionale di Studi sulla medicina di Genere di cui sono entrata a far parte in quota Consiglio Nazionale Ordine Psicologi. Si inizia a dar gambe ad una legge che è unica in Europa. Lo affermo con un entusiasmo contenuto, però, se penso che è una delle poche situazioni, quella riferita alle differenze di sesso e genere, in cui la scienza necessita di essere normata, quindi obbligata, a prendere atto di scoperte che conosciamo da oltre 30 anni ma che non applichiamo. Già Ippocrate diceva un uomo e una donna sono diversi, è una verità quasi lapalissiana. Solo la svalorizzazione dell’importanza della donna e del corpo della donna, solo questo ha potuto portare a non considerare le cose evidenti. Soprattutto in questa fase serve convergere sulla inderogabile necessità di raggiungere una eguaglianza sostanziale anche per ciò che riguarda la salute tra donne, uomini e le identità sessuali e di genere racchiuse nell’acronimo LGBT+”.
“Salute come bene comune”, scrivi questo libro nel 2015 , potremmo dire un’epifania, ossia un’anticipazione di una impostazione che dopo la pandemia da Covid 19 anche gli epigoni delle privatizzazioni sfrenate in campo sanitario, trovano condivisibile. Come tradurre, a tuo parere, questo concetto in azioni concrete?
“Salute Bene Comune è la sintesi di anni di approfondimento del paradigma di Promozione della Salute che ho conosciuto e praticato nei sette anni (00-07) di collaborazione con OMS di Copenaghen al Progetto Città Sane Europeo. Un modello molto vicino alla Psicologia di Comunità che avevo conosciuto grazie a Donata Francescato nei primi anni Novanta. L’OMS fin dal 1986 con la carta di Ottawa ebbe il coraggio di sottolineare che la salute non è sanità. Per mantenere le popolazioni in buona salute serve capire che i servizi sanitari solitamente (a parte i momenti pandemici) hanno ruolo ridotto e che la salute delle popolazioni è frutto della convergenza di intenti di economia, di industria, di educazione, etc. Rimango sempre stupita che i piani sanitari non tengano conto di una legge quasi elementare : quanto più la popolazione è acculturata tanto meglio puoi essere efficace nel prestare qualunque tipo di servizio. In campo salute e sanità, occorrerebbe curare l’alfabetizzazione alla salute della popolazione. Solo in questo modo si raggiungerebbe la capacità effettiva di scegliere quale procedura medica adottare. Per esempio, consideriamo il “consenso informato all’atto medico” che mette per iscritto che la persona sceglie tra le varie proposte di terapie, quella che ritiene più adatta da parte della persona stessa e chiede la firma di consenso a valenza giuridica. Firmiamo senza essere consapevoli che questo presupporrebbe una conoscenza approfondita che non possediamo. Come mantenersi in salute, ma anche come destreggiarsi nei servizi sanitari, come pretendere il rispetto dei propri diritti di salute rappresentano materie di altrettante inquietanti lacune. La pandemia in atto ci sta dimostrando quanto la territorializzazione e il rispetto del principio di prossimità della sanità diventino indispensabile anche in un momento in cui noi pensavamo che organizzare luoghi di cura assolutamente accentrati e ipercomplessi potesse essere la vera manna dal cielo. In questo stride il mantenere come professionisti convenzionati i medici di medicina generale, significa non essere consapevoli che essi (ed esse) rappresenterebbero il vero aggancio con la popolazione e il territorio.
Nel libro riporto come nell’antica Cina i medici venissero pagati per quanti pazienti sani avevano. Addirittura il medico dell’Imperatore veniva ucciso, se quest’ultimo si ammalava. Assumere questa visione della materia salute, svincolarsi dalla monetizzazione della malattia è come passare un ponte che non puoi più percorrere all’indietro, non puoi più avere una visione riduzionista. La sanità è solo una parte della salute. E’ una visione di politica sociale della funzione educativa del medico e di qualunque altro professionista sanitario, un’attenzione nei confronti della salute, che va oltre l’adempimento di un semplice compito professionale”.
Fulvia Signani e non solo medicina di genere: da professionista e da attivista sei stata e sei impegnata sul fronte dei diritti delle donne. Le tue riflessioni sociologiche, infatti, hanno attraversato anche il tema della violenza maschile sulle donne, che possiamo senz’altro definire un problema degli uomini. Quale idea ti sei fatta selle modalità da attivare per abbattere l’armatura identitaria che il patriarcato lascia in eredità a molti uomini contemporanei, stretti tra il desiderio di abbandonare il concetto di virilità imposto dalla storia e il lutto per un paradiso perduto, in cui la supremazia maschile veniva considerata una legge di natura?
“Studiare ed impegnarsi a diffondere le conoscenze sulle caratteristiche del patriarcato e del maschilismo e capirne le dinamiche è una indispensabile azione collettiva che può contribuire a contrastare molti dei disastri del patriarcato: tra questi la violenza di genere sulle donne, ma anche sugli uomini Beta e sulle persone LGBT+. È il tentativo di “scoprire i giochi” di una società che comunque offre quotidianamente segni visibili di legittimazione di queste violenze. Ricordiamoci che le disposizioni sul delitto d’onore sono state abrogate solo nel 1981, quando la maggior parte di noi era già adulta. Fino a quell’anno in Italia un uomo poteva uccidere impunito la propria moglie, compagna, fidanzata, amica se valutava che ella aveva tenuto un comportamento che aveva offeso l’onore del maschio. Impressiona. Significa che molti dei nostri parenti hanno vissuto in anni in cui c’era legittimazione alla violenza di genere e viviamo ancora il lungo strascico di questa tradizione di legittimazione. Al giorno d’oggi quando i giornalisti intervistano parenti e amici di colui che ha compiuto violenza di genere, scoprono donne che difendono l’aggressore che è loro marito, fratello, amico, confermando la deplorevole dinamica di colpevolizzazione della vittima. Il patriarcato non va letto nel termine semplicistico di “uomini che prevaricano le donne”, ma nei termini di persone, uomini e donne, che condividono una asimmetria di potere e su questa asimmetria pretendono arrogantemente e violentemente di essere protagonisti.
Vero. La supremazia maschile veniva considerata e accettata come legge di natura, molto ci dimostra che c’è ancora un residuo importante è preoccupante del consenso alla supremazia maschile. Lo ritroviamo nei sorprendenti sondaggi elettorali quando verifichiamo che le donne non sono disposte a votare altre donne, lo ritroviamo nelle nomine per incarichi dirigenziali, in donne che raggiungono alte cariche o ruoli molto importanti nella società, ma che, non essendo a conoscenza del meccanismo recondito e profondo del patriarcato, offendono, inconsapevolmente, le lotte femministe degli ultimi 60 anni richiedendo, per esempio, una denominazione maschile al loro ruolo – anche se la lingua italiana consente perfettamente la declinazione al femminile – un emblema della in-comprensione dell’importanza della giustizia sociale tra uomo e donna”.
Chiedo spesso alle intervistate di rivelarci il loro pantheon al femminile, le donne note e ignote che considerano come antenate e alle quali sono grate per ciò che oggi sono: ti faccio la stessa domanda, quali le tue antenate?
“Il Pantheon femminile. Bella questa domanda! Ti parlerò anche di uomini. Le mie due nonne. Nonna materna Pierina Corelli del 1897 viso bellissimo, battagliera, tenace, con una disabilità (una gamba più corta dell’altra) che a quel tempo era motivo di discriminazione escludente. Durante il fascismo s’è fatta carico di proteggere la bandiera del Partito Comunista. Ha vissuto con la bandiera fasciata addosso. Quando è morta le hanno scritto un articolo sull’Unità. Ho ricordi particolari di Maria Ravaglia, la nonna paterna, avevamo avuto la fortuna di poter acquistare uno dei primi televisori e lei non solo non si perdeva un telegiornale ma li raccontava, mi esortava (io piccolina) a capire con lei i fatti del mondo. Il giorno che proiettarono le immagini dell’uccisione del Presidente Kennedy la trovai che abbracciava piangendo il televisore. Mia madre, Francesca Guerrini, insegnante elementare, si ribellò all’usanza del tempo di farsi chiamare con il cognome del marito. Vedeva però un pericolo nel fatto che una donna si emancipasse in un modo forse squilibrato nei confronti di un uomo. L’ho sentita tutta questa sua preoccupazione e a distanza di tempo le devo dare in parte ragione. Mio padre, Bruno, è stato un esempio di uomo affettuoso e autorevole. Marco Ingrosso docente di sociologia ha proposto il mio primo insegnamento universitario a Ferrara (anno accademico 2000-01) di Promozione della salute, e mi ha favorito nel cambiarne poi la denominazione. Grazie a lui da tre anni insegno Sociologia di Genere. La mia vita professionale è costellata di maestre che riconosco tali, anche umanamente, ho già citato Donata Francescato. Paola Boldrini, di cui ho parlato a proposito della legge, e con lei Livia Turco, già Ministra della Salute, è stata la persona che ha supervisionato il testo della prima proposta di legge sulla medicina di genere e che mi ha consentito di essere inclusa nel volume “Le leggi delle donne che hanno cambiato l’Italia” della Fondazione Nilde Iotti. Le antenate ne sono fiere. Una maestra diventata amica è Flavia Franconi devo a lei le mie tappe importanti sulla medicina di genere. Nel 2020 abbiamo costituito insieme l’associazione EngHea Engendering Health per un’applicazione interdisciplinare dell’approccio sex and gender based con un intento comune e strategico perché si possano fare passi avanti nella disseminazione corretta e coerente della medicina di genere
Ultima, ma non ultima, mia figlia, Margherita Malinconi. Bello, affettuoso e gratificante averla fiera alleata”.
Natalia Maramotti
Chi è Fulvia Signani
Fulvia Signani si laurea nel 1980 presso l’ Università degli Studi di Padova in Psicologia Indirizzo applicativo e nel 2010 consegue presso l’ Università di Bologna – Forlì la laurea Specialistica in Sociologia della salute. E’ un’autorevole esperta in medicina di genere, formatasi attraverso la frequentazione di Master e percorsi formativi tra i quali presso l’Università Charitè, Berlino, la Summer School in Gender Medicine – EUGIM European Curriculum in Gender Medicine Project. Dal 1° aprile 1981 al 1° aprile 2020 lavora presso l’AUSL di Ferrara, come psicologa dirigente, psicoterapeuta. Dal 2007 al febbraio 2020,è Presidente del Comitato Unico di Garanzia CUG (ex Pari Opportunità e fenomeno Mobbing); dal 2008 a tutt’oggi Competente in Psicologia e Medicina di genere, conduce convegni, seminari e svolge ricerche sul fattore genere in sanità e medical humanities; dal 2009 al 2011 è Responsabile del Progetto Vita&Lavoro – Azioni di pilotaggio presso l’Azienda USL di Ferrara finanziato art. 9 L.53/00 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri ; dal 2008 al 2018 è Referente Equità aziendale ; dal 2006 al 2009 coordina il progetto ‘Equo accesso ai servizi sanitari per la popolazione immigrata e dal 1996 al 2000 è Coordinatrice aziendale dei progetti di educazione alla salute (campagne di comunicazione su stili di vita; adesione agli Screening oncologici femminili, comportamento tabagistico; etc.) dal 1981 al 2000 le viene affidata la gestione del servizio di psicologia clinica di Consultori Famigliari e Consultorio dei Giovani . Nel contempo dal 2001 inizia la sua esperienza presso l’Università degli Studi di Ferrara come docente incaricata in Sociologia di genere e della salute e Psicologia del lavoro e dell’Organizzazione, Scuola di specializzazione in Igiene e Medicina preventiva – Dipartimento di Medicina; tiene un corso di medicina di genere (9 maggio 2019) nel Corso triennale di formazione dei medici di medicina generale . E’ Docente incaricata di Sociologia di genere da aa 17-18 a tutt’oggi – Dipartimento di Scienze dell’Educazione. E’ docente incaricata di Promozione della salute da aa 2001-02 fino a.a. 16-17 e Docente di “Promozione del benessere e management delle diversità” nel Master annuale Management della formazione e delle risorse umane” del Dipartimento di Scienze dell’Educazione. Nel corso degli anni svolge contratti di ricerca con diversi importanti enti tra i quali: CNR Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa, ARPA Agenzia Regionale per l’Ambiente Emilia-Romagna, Organizzazione Mondiale della Sanità, sede di Roma. Coordinatrice Nazionale della Rete Italiana Città Sane OMS ha contribuito a organizzare la “Rete” in Associazione “Rete Italiana Città Sane OMS”, portando il numero di Comuni associati a 135, e facendo accreditare l’Associazione, da parte di OMS, come “il soggetto che in Italia può applicare il Progetto Città Sane”. Molte sono le sue pubblicazioni tra le quali nel 2015 il libro Salute bene comune: domande e risposte e nel 2013, La salute su misura- medicina di genere non è medicina delle donne.
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