REGGIO EMILIA – Mi sono avvicinato al basket intorno ai 15 anni, prima per me esisteva solo il calcio. Poi, grazie ad American Super Basket e alle gesta al Madison di tale Reggie “Hollywood” Miller che in 9″ stampò 8 punti in faccia a Spike Lee, venni folgorato da ciò che prima, per me, erano solo tre lettere in successione: Nba.
Eravamo a metà anni ’90 e da lì a poco (1996) planò sui parquet della National Basketball Association un tipo con la pettinatura afro, una cometa che si palesò direttamente dalla high school senza passare dal college. Lo sguardo di chi la sapeva lunga e la personalità di chi è destinato a stracciare la storia per riscriverla a modo suo.
Impossibile, davvero impossibile contare le volte che con gli amici siamo andati al campetto di via Assalini o al “Catellani” per provare a mettere in pratica – con tragici risultati – i suoi movimenti ammirati il sabato pomeriggio sull’allora Tele+: le sue hesitations, i suoi fade away, i crossover e gli ankle breakers con cui ubriacava i malcapitati di turno. Quella 8 che scelse per la sua prima parte della carriera in onore di Mike D’Antoni era per noi ragazzini di allora una sorta di status simbol: se ce l’hai, parli la mia lingua. Anche perché lui era “uno di noi”, un “reggiano” di uno/due anni più grande di quasi tutti quelli del mio gruppo.
Da quel momento, nacque una sorta di “rapporto a distanza” con colui che, nel frattempo, scalava posizioni su posizioni nella griglia dei più grandi di sempre in Nba: è difficile da spiegare, ma per me Kobe è stato come un amico che non ho mai conosciuto per davvero. Anzi, di più: per certi aspetti del suo essere, mi ha insegnato che l’attitudine che metteva ogni volta che onorava il gioco della pallacanestro – come non citare gli 81 punti a Toronto nel 2006, prestazione più alta mai fatta registrare da un bipede dopo i 100 di Chamberlain, e i 60 contro Utah nel farewell match del 2016 in condizioni fisiche disperate – poteva essere adattata alla vita di tutti i giorni. Se fai una cosa, la devi fare al meglio delle tue possibilità perché altrimenti non vale nemmeno la pena mettercisi.
Cinque “anelli” con i suoi Lakers – uno anche contro la “mia” Indiana – un titolo di Mvp, due ori olimpici e un dominio totale su ogni compagno e avversario nei 20 anni di carriera. Queste cifre non sono però che la punta dell’iceberg di ciò che è stato Kobe Bryant: un’icona per la mia generazione e per quelle venute dopo. Se imitarlo sui parquet è e sarà impossibile anche per chi fa il cestista di professione, il suo lascito umano deve essere uno stimolo per ognuno di noi: grazie forse anche all’imprinting reggiano preso su negli anni biancorossi del padre “Jelly Bean”, Kobe ha tradotto in azione, per ogni singolo secondo della sua vita dentro e fuori da quei 28 metri, le parole dell’altro “mostro” del gioco, Sua Maestà Michael Jordan: Limits are often just an illusion (i limiti, spesso, sono solo un’illusione).
Aveva ragione lui, vecchio mio: 8+24 questa volta fa infinito.
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