REGGIO EMILIA – Milena Bertolini, Commissaria Tecnica della Nazionale Italiana di calcio femminile e una delle allenatrici italiane che possiedono il titolo per allenare una squadra di serie A: cosa porta una bambina di una cittadina in provincia di Reggio Emilia, Correggio, a rompere gli stereotipi che fanno del calcio uno sport da maschiacci?
“Non c’è stato un piano, nel senso che ero semplicemente una bambina amante della attività fisica e a Lemizzone, la piccola frazione del Comune di Correggio dove abitavo, c’erano solo maschi che condividevano la mia passione, giocando a calcio. Magari insieme alla passione c’era anche una predisposizione, ma ricordo che la passione soprattutto mi ha fatto superare tutti gli ostacoli, tutte le difficoltà a partire dalla necessità di andare a Correggio per giocare in una squadra di calcio, peraltro, con compagne di squadra che erano dilettanti grandi di età, ricordo che io ero la più piccola , avevo 13 anni, e la più grande ne aveva 31! Poi ho fatto il mio percorso nella Reggiana, sono andata in giro per l’Italia e nel frattempo tornavo a Reggio Emilia per studiare e lavorare. A 13 anni avevo un sogno, quello di fare l’insegnante di educazione fisica; non la sono diventata ma ho fatto l’esperienza di insegnare lo sport a bambini e bambine e anche questo era parte della mia spinta a seguire la mia passione. In famiglia poi non sono mai stata ostacolata, forse anche perché nella mia famiglia le donne facevano lavori che erano tradizionalmente considerati da uomini, quindi non c’erano barriere culturali”.
Facciamo un salto nel passato per capire come l’ostilità per le donne nello sport, venga ancora prima delle distinzioni sessiste tra sport cosiddetti da donna e sport da uomo. Pier de Coubertine, il barone che ebbe l’intuizione dei giochi olimpici internazionali, si opponeva fieramente alla partecipazione delle donne allo sport. Certo era figlio del suo tempo, la fine dell’800, e di una società patriarcale. Faceva finta di non sapere che la spinta alla emancipazione femminile portava le donne a cimentarsi negli sport dal ciclismo all’alpinismo. Sono passati più di cento anni ma ancora nel nostro Paese e ovviamente nel mondo dello sport sono radicati pregiudizi sessisti. Qual è la tua esperienza?
“Posso confermare che anche oggi ci sono pregiudizi sessisti, perché mi pare che non sia ancora tramontata la società patriarcale e che per questo per le donne, nello sport, ma in tutti gli ambiti della vita, ci siano più difficoltà. I maggiori pregiudizi li scontano ancora le ragazze che si appassionano a sport “culturalmente” considerati maschili come la boxe, la pallacanestro, la pallamano. Penso però che le cose siano in continua evoluzione e in senso positivo. Detto ciò, bisogna fare attenzione, se l’indirizzo è quello del cambiamento culturale verso il superamento degli stereotipi sessisti, in particolare guardando alle giovani generazioni, comunque bisogna essere vigili perché nel percorso della parità è facile anche scivolare all’indietro”.
“Giocare con le tette” è un piccolo (sono poco più di 100 le pagine) grande libro che mi hai invitato a presentare in Comune a Reggio Emilia, poi alla Camera dei deputati, nel 2016. Parla di calcio e delle donne che praticano questo sport, ma in realtà parla della condizione femminile nel nostro Paese. Ha una bella storia enigmatica perché arriva come un file anonimo, in una chiavetta usb, postato all’interno di una busta alla Fondazione dello Sport di Reggio Emilia. È certamente scritto da una donna, che ha conosciuto e forse vissuto la condizione di calciatrice. Mi ricordo che un po’ vi ha stupito la mia entusiastica adesione all’iniziativa in qualità, allora, di assessora alle pari opportunità del Comune di Reggio, una volta letto il libro. Perché?
“Io avevo sentito molta freddezza nell’Amministrazione Comunale di Reggio Emilia, quando, nella veste di Presidente della Fondazione dello Sport, una volta presa la decisione di pubblicare il manoscritto, chiesi di presentarlo in conferenza stampa in collaborazione con il Comune. Quando poi ci siamo rivolti a te, come componente della Giunta che si occupava della delega delle pari opportunità, solo allora abbiamo trovato una adesione entusiastica.
Certo mi sono domandata il perché di questa presa di distanza, mi sono detta forse è il titolo, “Giocare con le tette”, forse è lo sport che non interessa, si tratta infatti di una testimonianza sulla condizione del calcio femminile, forse il fatto che nel libro si faceva riferimento in modo critico a personalità importanti dello sport nazionale come il Presidente Federale di allora o forse ancora è stato visto come un fatto personale. In realtà penso che un soggetto come la Fondazione dello Sport abbia il compito di promuovere le attività sportive di ogni tipo, in particolare quelle in cui la presenza delle donne è bassa e dove la discriminazione di chi lo pratica è alta. In realtà dopo la presentazione fatta nel febbraio 2016 a Montecitorio il libro ha dato il suo contributo per far conoscere a tante persone la condizione di sperequazione tra le calciatrici e i calciatori in particolare in riferimento al fatto che non esisteva il professionismo al femminile”.
I mondiali di calcio femminile nel 2019 hanno sicuramente acceso un riflettore sulla nazionale e sulle nostre giocatrici a partire dalla capitana Sara Gama, ma hanno anche reso nota una grave ingiustizia dello sport italiano ossia il fatto che c’è una discriminazione di genere che non permette alle atlete di essere professioniste, con quello che ne consegue sotto il profilo economico, previdenziale, formativo. È vero che le cose cambieranno entro la stagione 2022/23, secondo una decisione recente della Figc?
“È vero, il mondiale è stato fondamentale perché ha portato all’attenzione del grande pubblico il calcio femminile e questo è stato possibile, certo per la risonanza mediatica dell’evento, ma soprattutto grazie alle ragazze della Nazionale. Loro avevano una missione chiara, giocare con passione, farsi conoscere, far valere i loro diritti. Lo hanno fatto generosamente e, non a caso, da lì è partito un movimento da parte delle donne italiane. Pensa che al ritorno dal Mondiale in Francia sono stata riconosciuta e fermata per strada (prima non era mai successo); ci sono state donne che mi hanno abbracciato chiamandomi per nome, donne di tutte le età, anche anziane che mi hanno detto: “Siete state bravissime”. Penso che ritrovassero anche dentro a questa rivendicazione specifica, ossia essere riconosciute come calciatrici professioniste, un tratto comune alle discriminazioni che avevano vissuto in tanti altri campi della loro vita e alle rivendicazioni che hanno fatto fare passi avanti a tutte le donne italiane. Le ragazze hanno commosso e coinvolto le donne Italiane ma anche il Presidente della Repubblica che si è pronunciato sulla necessità di conseguire l’obiettivo della parità di trattamento. Da lì è partita l’assunzione dell’impegno della FGIC, unica Federazione che ha deliberato in merito al professionismo delle calciatrici a partire dal prossimo campionato. In questo modo una bambina potrà dedicarsi alla carriera calcistica, sapendo di percepire uno stipendio, di avere contributi previdenziali e alla fine della carriera sportiva di avere un percorso economicamente e previdenzialmente riconosciuto. Le ragazze non pretendono di sanare il divario retributivo che esiste fra loro e i colleghi uomini, sanno di non poter esigere ora l’ingaggio di Donnarumma, legato alle dinamiche del calcio mercato, ma vogliono che ciò che percepiscono sia qualificabile come una retribuzione. Purtroppo, è solo la Federazione Gioco Calcio che ad oggi ha recepito e disciplinato il professionismo delle donne; la condizione delle atlete che praticano altri sport non è cambiata”.
Ascoltando le tue parole nel corso di una delle occasioni che abbiamo avuto per scambiarci opinioni, mi hai fatto capire che il calcio giocato dalle donne è uno sport più pulito. Le giocatrici, salvo eccezioni, non si rotolano platealmente per terra, se subiscono un fallo in corsa provano a stare in piedi e continuare l’azione invece di cercare la caduta plateale. Non urlano di dolore nelle cadute. C’è quindi una differenza di genere nello sport, come negli altri ambiti della vita?
“Tutto vero, c’è una profonda differenza. Perché il calcio delle ragazze ha appassionato il grande pubblico a partire dai mondiali del 2019? Perché nel loro gioco vedi l’essenza di quello che dovrebbe essere lo sport: spirito di sacrificio, aiuto reciproco, rispetto delle regole, gioco di squadra. Quando cadono a terra le ragazze si rialzano, non vogliono ingannare l’avversario, pensano a giocare, a divertirsi e a divertire. Nel calcio al maschile è tutto diverso, c’è più aggressività, più strumentalizzazione forse perché ci sono molte pressioni psicologiche rispetto ai risultati. Penso che lo spirito del calcio al femminile possa contaminare il calcio al maschile. Le impressioni di chi ha visto a Reggio Emilia la finale di Champions League femminile del 2016 e i mondiali femminili del 2019 era che il calcio femminile sia una festa. Vedere una partita di calcio al maschile ti fa subito percepire la conflittualità delle tifoserie. Mi domando se al di là degli ormoni (il testosterone ormone dell’aggressività) quello che fa la differenza siano sempre gli aspetti culturali. L’uomo viene educato a vincere, a sopraffare, le donne a fare insieme, alla circolarità, alla inclusività”.
Se sei una ragazza e giochi a calcio… allora sconti un pregiudizio diffuso: sei lesbica. Questo è uno stereotipo che stigmatizza la passione delle donne per il pallone, come per converso c’è lo stereotipo che fa della passione per la danza dei maschi una patente di omosessualità. Premettendo che l’orientamento sessuale di ciascuno è un modo di esprimere la propria piena soggettività, il linguaggio d’odio è stato destinato in molte occasioni anche alle calciatrici, legandolo proprio all’omotransfobia. Sai che il disegno di legge Zan, approvato alla Camera dei deputati, bloccato in Senato, punisce i crimini d’odio, combattendo violenze e discriminazioni contro persone LGBTQI, donne e disabili. Pensi che sia utile?
“Si è vero e il linguaggio omofobico, così come quello razzista e misogino, non sono tollerabili, in campo e nella vita. Sono per la libera espressione della soggettività delle persone. Penso che nella nostra Costituzione ci sia tutto, è un faro rispetto ai principi di libertà e non discriminazione. I principi fondamentali ci sono già, nello specifico penso sia utile una legge che persegue i crimini d’odio omofobico e misogino. Se ciascuno di noi può vivere liberamente, senza minaccia, la conseguenza e quella di vivere in una società migliore”.
Natalia Maramotti