REGGIO EMILIA – Incontrata radiofonicamente grazie all’ascolto della trasmissione di Rai Radio 3 Uomini e profeti, qualche anno fa, è stato bello risentirti tra le relatrici di un seminario dal titolo “Le chiese cristiane e i ministeri femminili: un dibattito aperto”, tenutosi il 25 novembre grazie al gruppo di ricerca di Unimore “Generi e religioni”. Cristina Simonelli, la tua lettura del dominio patriarcale nell’ambito della chiesa cattolica è radicale: nell’occasione citata hai parlato di “santo patriarcato”. Quale è il lavoro di elaborazione delle teologhe rispetto a questa condizione delle donne , in particolare nei ministeri?
“Dico prima di tutto che è davvero interessante questa rete che diviene visibile nelle tue parole: eventi che ora leggendo recupero e ricordo, ma che non avrei saputo indicare senza questo scritto. Una rete però che esiste, che ci raccoglie in una forma agile ma insieme anche tenacissima. Questo – che è in primo luogo un ringraziamento – mi aiuta anche e entrare nell’argomento richiesto: anche il lavoro delle teologhe, come la riflessione delle donne nella loro esperienza religiosa e umana, più largamente, è come questa rete che si è creata tra noi e che ora si manifesta. E’ tenace, ma nello stesso tempo è mobile e si apre in molte amicizie. Questo vale per le domande radicali sulla vita, sulla morte, sulla giustizia e può valere anche per quello che riguarda la situazione all’interno della comunità ecclesiale, anche quella cattolica. In quell’incontro parlavo infatti di santo patriarcato per dire che la strutturazione “patriarcale e androcentrica”, basata in fondo sulla precedenza e prevalenza degli uomini sulle donne, è qualcosa di molto ampio, che in maniere varie riguarda tutte le società, con scarsissime eccezioni. Non è una creazione della religione, certo. Succede però qualcosa di triste in questo ambito: tante questioni che sono vissute in comune con gli altri ambienti, vengono non solo assunte – e ci sta – ma sacralizzate. A quel punto si instaura un circolo perverso: elementi che secondo uno statuto evangelico sarebbero da porre in giudizio e da cambiare (pensiamo schiavi e liberi, differenze etniche oltre che di genere, [come si esprime Galati 3,28 “ non c’è Giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è uomo e donna]) non solo vengono presi tali e quali, ma diventano in certo senso intoccabili, inamovibili, sacralizzati appunto. In questo senso dicevo santo/patriarcato, perché ciò che è condiviso con lo spazio circostante a un certo punto si blocca… come se piovesse dal cielo. In questo “affaraccio” le conseguenze negative non sono solo delle donne, ma anche degli uomini, che vengono imprigionati in ruoli rigidi e confermati in ansie di prestazione. Ma se ne può uscire e insieme: il nostro percorso ama le differenze, e si dispone in esse, ma collabora con altre e altri”.
Prima di essere una donna di pensiero sei stata e credo tu sia tuttora una donna di pratiche e approcci non convenzionali. Alludo alla tua lunga esperienza di vita in un campo Rom. Come approdi a questa scelta certo non comoda?
“Sì, in realtà la vita passata lungamente in roulotte (1976/2012) e anche ora condivisa con il mondo Rom sia pure in altra forma di abitazione, è stata una delle cose più belle che mi siano capitate. Beh, capitate, non a caso, diciamo, successe ma anche volute, perché è venuta da una ricerca che portavo avanti dagli anni del Liceo, ricchi ancora di fermenti del Sessantotto e del Concilio, e che mi spingeva a voler mettere alla prova il Vangelo, a vedere se “teneva”. Pensavo di farlo a distanza, nel Sud del mondo, ma poi grazie ad alcuni amici e amiche, mi sono spostata di pochi metri, sia pure compiendo un certo ampio viaggio. Nata così la cosa nei miei venti anni, mi ha dato moltissimo: un punto di vista sulla storia e sulla città, un modo di leggere il vangelo, di amare i nomi propri, di cercare la concretezza. Ho imparato a vivere, a vedere, a respirare. Ho passato questi anni in due piccole comunità di amici, prima in Toscana e poi dall’81 con base a Verona, dove sono ancora. Questa comunità è anche un luogo di vita, di affetti, e per varie circostanze di volti bellissimi di nipoti – non importa come lo siano nostri nipoti, ma lo sono! – che danno luce e speranza anche alla mia e nostra tarda maturità”.
Presiedi tuttora il Coordinamento italiano delle Teologhe, fondato nel 2003 da Marinella Perroni. Non penso che sia una realtà così nota tra le donne, cattoliche e non. Il sito del Coordinamento è peraltro un ricchissimo giacimento di cultura orientata in ottica di genere. Questo vostro agire con separatezza fa i conti con una postura femminista?
“Sì, senza dubbio mi colloco e ci collochiamo in un orizzonte femminista, nel quale l’essere donne in un’ottica di trasformazione, per sé e per altre/i, viene prima di altre appartenenze. Io sono cattolica, in Italia è facile che sia così, ma la nostra associazione è ecumenica, altre colleghe sono protestanti, e abbiamo anche delle socie buddiste. E anche fra le – attualmente centosettanta – persone associate, vi sono alcuni uomini che hanno voluto schierarsi in questo modo dalla parte delle differenze. Il nostro statuto recita che ci disponiamo “in prospettiva di genere”: è così, anche se non lasciamo niente di immobile e uno dei nostri slogan è “io non ti scomunico”! Dunque ci stanno anche le prospettive della differenza e anche chi vuole dirsi diversamente, purché all’interno di paradigmi non escludenti e non “neutri”, cioè che non nascondano nei pretesti “universali” vecchi privilegi e dominii. Pratichiamo dunque una separatezza, perché ogni differenza, ogni vita, possa dirsi per quella che è. Potrei aggiungere, non un separatismo: viviamo lavoriamo facciamo ricerca in ambienti di donne e anche di uomini, di colleghe e colleghi”.
Ero il 30 marzo del 2019 a Verona al Cinema K2, in concomitanza con il WCF in Gran Guardia. Rri fra le donne sul palco, con te Monica Cirinnà, Livia Turco, Laura Boldrini, Susanna Camusso, solo per citarne alcune. Nel tuo prendere parola il giudizio sul Congresso della famiglia è apparso chiaro “In questo congresso vedo discorsi cattivi sull’orientamento omosessuale, fuori tempo.” Hai aggiunto “Tornare alle posizioni medievali sulla condizione delle donne , fa male anche agli stessi uomini”. Una marea di donne per le strade di Verona ha bloccato un progetto di legge, il DDL Pillon, che proponeva un pericoloso arretramento per le libertà e i diritti civili di tutte e tutti. Pensi che possano riemergere nella chiesa e nella politica spinte retrograde di questo tipo?
“Per possibile è sempre possibile, ci muoviamo piuttosto a zigzag. Tuttavia ci sono anche dei segnali importanti in questo senso: non so se si può dire “di non ritorno” perché frequentare la storia rende molto cauti in questo. Però dei segnali importanti ci sono e in una buona direzione. Come è stato scritto sui grattacieli di Santiago nel primo periodo della pandemia, lo scorso anno, “non torneremo – cioè non vogliamo tornare – alla normalità, perché la normalità era il problema”. Non è scontato, certo, che questo avvenga, ma io lo spero profondamente e lo penso possibile”.
C’è una genealogia femminile, anche non genetica, alla quale ti riferisci e dalla quale dipende la donna che sei? In altre parole chi sono le tue antenate?
“E’ una bella domanda e non del tutto consueta. Ho un po’ pensato prima di rispondere e direi così: sento una genealogia che è anche di fatto genetica e che vede le mie nonne, una in specie che veniva dalla campagna umbra, sul lago Trasimeno e sento in me di lei tante cose, tante somiglianze. Anche di mia mamma, che era molto diversa da me, ma con la quale mi sento oggi come in un dialogo quasi costante, dopo che è stata per tanti anni di malattia insieme a me e dopo che abbiamo potuto concludere la sua strada prima del Covid, dunque in presenza. Anche una zia, che viveva con un mood sempre un po’ dolente, mi è molto presente e anche delle suore della infanzia e prima giovinezza che ricordo come un magistero di profonda energia – così come tante colleghe, alcune conosciute, altre solo lette, ma importanti. Con le letture ho poi trovato consonanze nel passato, in specie certe donen dell’antichità definite “vipere e sfacciate”: molto simpatiche! Ci sono poi genealogie più oblique: una donna Romni che prima di morire mi ha regalato un suo scialle, come una eredità; la signora che mi ha aiutata con mia mamma e che è una mia nuova sorella che mi ha portato una genealogia da altrove. E poi mi piace pensare a un albero rovesciato: mi sento discepola delle mie colleghe più giovani e cerco di imparare da loro”.
Da ultimo riprendo un concetto che hai espresso: “Le minoranze raramente creano tradizione, le donne sono maggioranza numerica, ma funzionano come minoranza”. Niente di più vero anche per il rapporto tra le donne italiane e i luoghi della decisione politica ed economica. Pensi che per far prevalere l’etica della cura nella politica la presenza maggioritaria delle donne sia necessaria?
“Presentando i teoremi, a scuola, imparavamo a mettere in campo frasi come “condizione necessaria e sufficiente”. Ecco io credo che una maggiore presenza di donne, riconosciute nella loro autorevolezza e dotate degli strumenti necessari perché questa possa diventare autorità esercitata, sia necessaria. Penso però che non sia sufficiente. Credo che non ci possa essere in questo qualcosa di automatico, è importante che siamo tante, ma anche che tutte, con altre e altri, stiamo attente a quanto si affaccia, stiamo in esercizio sempre per non lasciare indietro nessuno. E’ importante muoversi non spostando piccoli tasselli ma cercando di comprendere e migliorare i modelli – sociali, economici – ecologici. Non spostare solo i sassi, ma rifare le strade”.
Natalia Maramotti
Chi è Cristina Simonelli
Nata a Firenze, il 24 maggio 1956. Dal 1976 al 2012 ha vissuto in un accampamento Rom, prima in Toscana, poi a Verona.
Socia del CTI, Coordinamento Teologhe Italiane, dalla sua fondazione, lo coordina come presidente dal gennaio 2013.Ha conseguito la licenza in antropologia teologica nel 1995 presso l’allora Studio teologico fiorentino.
Nel giugno 1997 si è diplomata in Teologia e scienze patristiche con la tesi: La fede nella resurrezione di Cristo nel “De Trinitate” di Agostino presso l’Institutum Augustinianum di Roma, dove sullo stesso tema nel 1999 ha poi difeso la tesi dottorale.
Tra le sue pubblicazioni: Dio patrie famiglie. Le traiettorie plurali dell’amore (Piemme 2016); Provvisorietà (Edizioni Messaggero 2016); Incontri. Memorie e prospettive della teologia femminista (insieme a Elizabeth Green: San Paolo 2019)
È docente di Storia della chiesa e teologia patristica a Verona (San Zeno, San Pietro Martire) e presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano).